venerdì 2 settembre 2011

I «NUOVI SOCRATE» RIVEDONO COSTANTEMENTE IL PROPRIO LAVORO

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 361, settembre2010, pp. 12-13

Come ogni anno, a settembre, la scuola italiana riaprirà i battenti. Assisteremo a frotte di visi allegri che invaderanno nuovamente corridoi e aule, tornando a riempire il cuore dei fortunati che lavorano per loro e tra loro: docenti e non docenti, accomunati dalla consapevolezza di lasciare sempre una traccia.

I docenti ne sentono la responsabilità con un’intensità maggiore e specifica, perché sanno bene che attraverso quelle ore trascorse con le varie classi a loro affidate contribuiranno a imprimere una forma quasi indelebile in questa generazione di allievi, com’è avvenuto per quelle precedenti. Un’impronta il cui valore dipenderà dal valore di chi l’avrà lasciata. Ed è per questo che la maggior parte degli insegnanti cerca di coltivarsi, non solo intellettualmente, ma in tutti gli aspetti della propria persona. Chi non lo fa, scivola inesorabilmente in un’apatia e in una noia che spesso si intravedono, per esempio, in certi compiti assegnati per le vacanze in quantità esagerate e scelti a volte con criteri che risultano poco chiari agli stessi destinatari.

Periodicamente viene evidenziata l’esigenza di una riqualificazione del corpo docente in Italia. E numerose sono le proposte avanzate. Quelle che ci sembrano più convincenti mirano a favorire soprattutto un innalzamento di questo desiderio (e speranza) di coltivarsi come essere umano a tutto tondo, senza limitarsi alle competenze disciplinari, pur essenziali, e senza ridurre l’insegnante a un semplice detentore-trasmettitore di conoscenze o di «allenatore» di giovani menti.

Come ha sostenuto, per esempio, Arne Duncan, Segretario di Stato all’Educazione degli Stati Uniti, in un intervento («La scuola ha bisogno di nuovi Socrate») pubblicato il 2 giugno nella pagina della Cultura di Avvenire, «l’insegnamento è una delle poche professioni che non è solo un lavoro o addirittura un’avventura estemporanea: è una vocazione. I grandi insegnanti si sforzano di aiutare ogni studente a sbloccare il proprio potenziale e a sviluppare l’atteggiamento mentale che gli servirà per tutta la vita». E più oltre scrive: «Un grande insegnante può letteralmente cambiare il corso della vita di uno studente. Gli insegnanti accendono una curiosità che dura tutta la vita, destano il desiderio di partecipare alla democrazia e instillano la sete di conoscenza».

Da loro dipende principalmente l’efficacia dell’istruzione-educazione, non dalla proporzione numerica docenti-studenti o dalle strutture. «Tutti gli studi», scrive Duncan, «affermano come sia la qualità dell’insegnante responsabile della classe il fattore decisivo per la crescita scolastica di uno studente, e non le condizioni socio-economiche o l’ambiente familiare». E, parlando del suo Paese con un occhio all’università, prosegue: «Pochissimi Stati e pochissimi distretti monitorano attentamente il lavoro degli insegnanti, valutando se e quali programmi di formazione didattica hanno creato docenti ben preparati e quali invece insegnanti dal rendimento scarso. Dovremmo, da un lato, studiare e riprodurre le pratiche rivelatesi efficaci e, dall’altro, esortare gli insegnanti meno efficienti a rivedere il proprio modo di lavorare o a rinunciare a questa professione». Quest’ultima esortazione tocca un punto centrale per il miglioramento del settore: che ogni docente voglia davvero essere efficace e che, a tal fine, sia disposto a rivedere continuamente il proprio modo di lavorare. L’alternativa è cambiare lavoro.

La razionalizzazione operata dal ministro Gelmini e, soprattutto, il progressivo adeguamento ai livelli europei del numero degli insegnanti rispetto a quello degli studenti, complicheranno un po’ la vita a chi vive nella scuola e, per altri versi, a chi ne resterà fuori (fatto, questo, particolarmente doloroso, anche se gli spiragli di luce non mancano: si pensi per esempio all’annunciato avvio di un concorso per 2.800 dirigenti scolastici e all’assunzione imminente di 10mila docenti e 6mila unità di personale Ata). È presumibile, però, che nel lungo periodo certi sacrifici avranno un ritorno positivo per tutti, anche al di fuori del mondo dell’istruzione. Del resto, se qualcuno la chiama goliardicamente Morfiormini (dai nomi dei ministri Moratti, Fioroni e Gelmini, che in un modo o nell’altro sono intervenuti nell’iter della riforma), è per sottolineare che, una volta tanto, si è portato a termine un progetto che, per quanto contestato in alcune sue parti, ha conservato una coerenza nonostante il succedersi dei Governi.

Dati attendibili su quanto sarà stato apprezzato dalle famiglie e dai docenti il riordino dell’istruzione secondaria non potranno che giungere molto più in là nel tempo. Di certo comunque c’è il fatto di aver messo fine a tre decenni di proliferazione delle cosiddette «sperimentazioni» che – come ha sottolineato Giorgio Chiosso, ordinario di Storia della Pedagogia all’Università di Torino – erano arrivate a disorientare le famiglie con i circa 900 corsi di studio. Inoltre, la riduzione degli orari, in linea con molti altri Paesi europei, pur non incontrando – comprensibilmente – la condivisione dei docenti delle discipline sacrificate, potrebbe avere un effetto benefico nella riconduzione del tempo scuola a dimensioni più aderenti alla funzione principale di questa istituzione, che non può e non deve esaurire l’orizzonte dei ragazzi e dei loro genitori. È bene per la società, infatti, che siano garantiti ampi margini di libertà all’iniziativa di altre agenzie educative e delle stesse famiglie.

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