venerdì 2 dicembre 2011

UN'AFFERMAZIONE CHE NON AGGREDISCE NESSUNO

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 369, maggio 2011, pp. 8-9.

Con la sentenza del 18 marzo scorso, la Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha scritto una pagina significativa per la storia europea, facendo tirare un sospiro di sollievo a quanti temono (e denunciano) la diffusione di una nuova forma di intolleranza che, in nome della tolleranza, rischia paradossalmente di negare la tolleranza stessa. È in tale cornice infatti che va letta la pretesa di vietare l’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, nelle aule scolastiche ecc.
Che in tante zone, per esempio d’Oriente, essere cristiani significhi rischiare la vita, è un dato purtroppo all’ordine del giorno, anche se pochi quotidiani nazionali ne informano adeguatamente i lettori. Ma che addirittura in Italia e in Europa si debba vedere negato il diritto a esporre il crocifisso, questo ha fatto indignare anche i più laici dei laici. E infatti è stato unanime l’apprezzamento per i giudici di Strasburgo che, a stragrande maggioranza (15 su 17), hanno dato ragione all’Italia nel caso che riguardava la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche in Italia, ritenuta da alcuni incompatibile «con l’obbligo dello Stato di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche».
Tutto era iniziato quando i due figli della signora Soile Lautsi, Dataico e Sami Albertin, erano iscritti nel 2001-2002 presso l’Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre, ad Abano Terme.
Il crocifisso era affisso nelle aule. Durante una riunione del consiglio d’istituto, il marito della Lautsi sollevò la questione della presenza di simboli religiosi, e del crocifisso in particolare, nelle aule, chiedendone la rimozione. In seguito alla decisione del consiglio d’istituto di mantenere i simboli religiosi nelle aule, la signora adì il T.A.R. del Veneto, denunciando in particolare la violazione del principio di laicità.
La vicenda è ben riassunta dal comunicato della Cancelleria della Corte Europea, reperibile nel sito http://www.echr.coe.int/ 
 
Ci limitiamo quindi a ricordare che una precedente sentenza della Corte (9 novembre 2009) aveva dato ragione alla signora Lautsi. Il Governo italiano aveva presentato ricorso alla Grande Chambre, ritenendo la sentenza lesiva della libertà religiosa individuale e collettiva come riconosciuta dallo Stato italiano. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, aveva organizzato riunioni dedicate alla riflessione sulle argomentazioni da utilizzare e aveva scritto ai suoi omologhi degli Stati membri del Consiglio d’Europa, trovando l’appoggio formale di San Marino, Malta, Lituania, Romania, Bulgaria, Principato di Monaco, Federazione Russa, Cipro, Grecia e Armenia.
Una vittoria quindi non solo dell’Italia ma anche di questi Paesi, alcuni dei quali di tradizione cristiana ortodossa, oltre che dei 33 membri del Parlamento europeo intervenuti congiuntamente e di varie organizzazioni non-governative di vari Paesi.
Il rischio era che in nome della libertà religiosa si limitasse o persino si negasse tale libertà. Ma la Grande Chambre, le cui sentenze sono definitive (articolo 44 della Convenzione), ha scongiurato tale rischio ribaltando la decisione del 2009. Ha affermato, tra l’altro, che l’esposizione del crocifisso non costituisce un indottrinamento ma è espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana.
Mesi addietro, su una questione simile, Benedetto XVI aveva espresso il suo pensiero rispondendo al giornalista tedesco Peter Seewald, che aveva chiesto: «si potrebbe affermare che uno Stato, in considerazione dell’eguaglianza dei cittadini, debba anche avere il diritto di bandire i simboli religiosi dai luoghi pubblici, compresa la Croce di Cristo. È un’argomentazione valida»?
Il papa aveva risposto: «Dobbiamo innanzitutto chiederci: perché lo Stato deve bandirli? Sarebbe un atto sul quale riflettere se la Croce implicasse un’affermazione incomprensibile o insostenibile.
Ma la Croce significa che Dio stesso è un sofferente, che per mezzo della sua sofferenza ci vuole bene, che ci ama. È un’affermazione che non aggredisce nessuno. Naturalmente esiste poi anche un’identità culturale sulla quale poggiano i nostri Paesi; un’identità che forma positivamente i nostri Paesi e che li sostiene dall’interno, che rispecchia valori positivi e definisce la struttura fondamentale della società, un’identità che evidenzia e limita l’egoismo e che rende possibile una cultura di umanità. Direi che una simile espressione culturale di sé di una data società, che positivamente se ne nutre, non può offendere chi non la condivide e non deve nemmeno essere bandita» (Luce del Mondo, LEV, 2010, p. 85).
Parole certamente condivise da chi aveva apprezzato quelle scritte il 22 marzo 1988 sul quotidiano comunista L’Unità da Natalia Ginzburg, di origine ebrea e non credente: «Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla Croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti».

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